IL MIO 30 APRILE 2020

Il nuovo ponte di Genova non è solo un ponte, ma è un simbolo di come si possa rinascere dalle proprie macerie… a patto, però, che gli orrori del passato non vengano commessi nuovamente e che non si perda la memoria di chi, a causa del vecchio ponte, ha visto sgretolare o cambiare inevitabilmente la proprio vita.

In questi giorni ho riflettuto molto prima di completare questo pensiero. Ero combattuto… indeciso su come esprimere quello che ho dentro. Incredibilmente, la posa dell’ultimo piano dell’impalcato del nuovo ponte di Genova avrebbe coinciso con l’uscita del mio libro, se – e dico se – non ci fosse stato il nostro peggior nemico invisibile a sconvolgere i piani di tutti. Nonostante ciò, una giornata così importante per me e per il progetto sul ponte Morandi non poteva passare in sordina, ma avevo bisogno di più tempo per schiarirmi le idee e per non scivolare nel banale.

Il nuovo viadotto di Genova taglia come in passato – in due il Polcevera. Un forte messaggio per l’Italia e per gli Italiani: dalla polvere si può rinascere come la fenice. Un simbolo da mostrare al Mondo. Non tutto è perduto! Molti quotidiani e telegiornali, anche internazionali, hanno rilanciato la notizia accantonando, per un attimo, il tanto odiato virus. Il Presidente del Consiglio stesso ha elogiato lo sforzo di chi ha incessantemente lavorato per portare a termine questa prima parte di opera – così grandiosa – ricordando le 43 vittime.

Ieri mattina ho iniziato a buttar giù due righe galvanizzato dai tanti input positivi che mi arrivavano. Poi, mi sono fermato e ho cancellato tutto. Mi sono alzato, ho chiuso il PC e sono andato dalla piccola che nel frattempo dormiva. La osservavo mentre mi tormentavo. “Quel ponte non è solo un ponte” mi ripetevo: per me, per i miei colleghi, per le persone di Genova e per i parenti delle vittime è molto altro. Ma cos'altro? Dovrei essere felice… eppure non lo sono.

Un nuovo messaggio dell’amico Davide mi riporta al presente: “Ale, per il tuo libro oggi è un giorno importante. Hai già pensato a un post su Facebook?”.

“Ciao Davide, sì, è vero… ci sto ancora lavorando. Effettivamente è un giorno importante, ma credo di non voler festeggiare!”.

Sapete… io, lì sotto, non ci sono mai stato. Mi era stato chiesto di andare nei giorni successivi in supporto alle squadre SAPR (nucleo del Corpo Nazionale che utilizza i droni per mappare il territorio) ma avevo rifiutato in quanto da lì a breve mi sarei dovuto sposare con Elena. Non immaginate quanto mi pesi pensarci ora. Nella prefazione del libro ho scritto che “il modo di fare pace con me stesso” era appunto aver intrapreso e completato questo progetto, ma, in realtà, quella pace interiore è rimasta utopia. Ammetto, però, di aver sofferto. Ho voluto condividere moralmente i fatti accaduti con miei colleghi. Ho assorbito come una spugna le loro emozioni tanto da non dormirci la notte. Ho visitato i luoghi della narrazione e ho voluto capire cosa significasse quel ponte per i Genovesi. Ho avuto paura di parlare con loro e alla fine dei conti mi sembra di esserci stato, di aver preso parte ai soccorsi. Ho conosciuto le famiglie delle vittime perché mi sentivo in dovere di farlo. Questa esperienza mi ha portato a scontrarmi con i miei punti deboli. Ho rivissuto tutti i giorni le loro storie, ascoltando le registrazioni delle conversazioni perché ci tenevo che a scrivere questo libro fossero proprio loro che mi hanno aperto il cuore senza nemmeno sapere chi fossi. Ho scavato così profondamente in me stesso per cercare di comprendere cosa mi volessero comunicare, tanto da volermi spontaneamente isolare da tutti per settimane come un eremita in terra amica.

Se oggi 30 Aprile 2020 alle ore 00:30 mi chiedete come mi sento, se sono felice che l’impalcato del nuovo viadotto Polcevera svetti più bello e leggiadro sullo skyline di Genova, se sono soddisfatto che il libro sui soccorritori intervenuti al ponte Morandi possa probabilmente uscire in concomitanza dell’inaugurazione finale e se sono orgoglioso del mio primo importante progetto letterario, vi rispondo sinceramente: a malapena riesco a comprendere perché mia figlia possa piangere nonostante sia attaccata alla tetta della mamma, figuriamoci se ho tutte queste risposte…

So solo che chiunque di noi può fare la differenza… se lo vuole veramente!